Baldan ADM

Michele Beraldo

Nella versatile sua complessità l’arte del secondo Novecento ha definito all’interno dell’astrattismo due grandi ambiti di ricerca. Da una parte l’informale, matrice pittorica attraverso la quale l’artista imponeva la sua personalità, sferrava sulla tela “attacchi” gestuali talvolta intensamente materici che davano corso ad un costrutto di immagini assolutamente libere; dall’altro versante si verificò l’esatto opposto: l’artista assumeva un controllo rigoroso della forma pittorica compartimentando il colore entro strutture lineari e geometriche di chiara ascendenza neoplastica.

Queste due differenti interpretazioni del linguaggio astratto sono avvertite all’interno dell’itinerario artistico di Arturo Baldan. Se negli ultimi anni egli ha inteso convergere il proprio lavoro lungo la direttrice concretista allontanandosi da ogni proposito pittorico, è proprio dalla pittura intesa nella sua accezione di assoluta libertà, nell’irradiarsi molteplice di colore e gesto, che egli era invece partito. Le sue prime affermazioni tenevano infatti conto delle più larghe e consolidate azioni espressive dell’action painting, riesaminate secondo un’ottica personale attraverso l’utilizzo di frementi ma al contempo misurate pennellate.

L’estendersi periferico del colore, il suo tracciarsi filiforme e centrifugo, connotava il lavoro di Baldan verso uno spazio idealmente infinito e policentrico entro il quale la dimensione dell’io rischiava di dilatarsi assieme al portato pittorico. Questa difformità tra lo spazio interiore e lo spazio esteriore, tra la centralità dell’io e la concitata mutabilità della forma dipinta, ha generato una reazione contraria: ha fatto sì che Baldan ripensasse ad un modello espressivo, non necessariamente pittorico, che ridefinisse i termini della sua progettualità artistica.

Con i primi “assemblaggi”, cominciati nel 2006, l’analisi del fruitore veniva proiettata in una dimensione fisica in cui la componente pittorica diventava secondaria ma non ancora del tutto irrilevante, poiché tra lo spazio bidimensionale e quello dell’assemblaggio veniva a crearsi una mobilità simbolica svincolata da criteri di regolarità e quindi ancora una volta rintracciabile all’interno della matrice informale.

È solo in una seconda fase, quando i contenuti extrapittorici prevalgono distintamente, che l’artista definisce in termini risolutivi la sua nuova ricerca; questa volta applicandosi rigorosamente nell’esercizio dell’assemblaggio, con una modalità che supera l’esperienza novorealista e si attiene invece a procedure più rigorose, sia dal punto di vista della lavorazione dell’oggetto che della sua applicazione.

L’opera è infatti costituita di singoli elementi, piccoli parallelepidi in legno rivestiti di tela e successivamente dipinti che costituiscono, nel loro dinamico insieme, un’immagine tridimensionale e al contempo duttile, in costante movimento.

La componente più rilevante dei suoi assemblaggi, quella geometrica e razionale, si salda infatti perfettamente nella struttura solo apparentemente statica del quadro. In realtà persistono elementi “instabili” poiché le differenti caratteristiche applicative, il maggiore o minore rilievo dei singoli corpi, la loro diversa inclinazione e sporgenza, comportano sulla superficie del quadro una diversa ricezione della luce e un diverso orientamento visivo.

L’artista, pertanto, configura l’opera entro coordinate variabili intercorse da dinamiche percettive differentemente strutturate, in cui la coazione visiva è superata dalla mutevole forza espressiva dell’opera stessa. Si creano così delle “opere aperte” a vantaggio del singolo fruitore il quale, non assoggettandosi alla forma finita, diviene interiormente partecipe della loro composta mobilità.

Gabriella Niero

….. un giovane autore dotato di fantasia creativa.
I suoi pannelli bianchi e neri composti da tanti cubetti si compattano in misurate geometrie optical esprimendo un concetto di purezza stilistica nella forma e nel colore.
Lo spazio tridimensionale accoglie i netti contrasti dei toni in prezziosi accordi visivi.

Giorgia Gemo

fatta propria la lezione della Minimal Art, realizza delle composizioni realizzate su unità  minime, ripetute e disposte nello spazio: il rigore geometrico si coniuga con studiati accorgimenti cromatici e con le fessure in ombra tra le fasce lisce dei cubi.

Gabriella Niero

………attraverso alcune composizioni con piccoli cubi bianchi e neri esprime un suo concetto di purezza nella forma e nel colore. Lo spazio compatto della materia si scioglie nell’ultimo dipinto ad olio.

Giorgio Pilla

………si affida per esternare i propri stati d’animo ad un linguaggio “concettuale”che prevede una precisa ricerca preparatoria su cio’ che la manualita’ andra’ a materializzare successivamente, caricando di significati piu’ e prima l’idea piuttosto del prodotto finale. Le sue costruzioni ottenute con l’uso di mattoncini propongono una sintesi di pensiero propria del tempo che stiamo vivendo………..

Francesco Valma

con il candore del bambino che e’ in noi da alle sue composizioni di mattoncini colorati la capacita’ di un nuovo incontro con il nostro sentire.

Nicola Galvan

Nel suo prodursi entro differenti territori espressivi, il progetto creativo di Arturo Baldan sembra voler depistare chi, tra osservatori e possibili esegeti, cerchi di delimitarne l’identità  poetica e stilistica. Questa può, ipoteticamente, essere denotata proprio come proiezione di una irrequietezza e di una curiosità  che, assecondate dal suo operare, hanno trovato modo di esercitarsi nelle varie soluzioni compositive adottate e, con esse, nelle scelte “materiali” attraverso cui hanno preso forma. Tuttavia, ciò che uno sguardo approfondito può riconoscere nella giovane storia della sua produzione artistica, è una evoluzione costante ed a suo modo coerente, in cui ognuna delle sperimentazioni di cui le superfici sono state sede ha recato in sé uno o più interrogativi – per loro vocazione aperti – in grado di generare un tentativo ulteriore e diverso.

Se il termine “ricerca”, con le sue valenze metaforiche, viene accostato non sempre in modo congruo al nome di molti operatori contemporanei, appare adeguato per accompagnare la vicenda dell’artista veneto, la cui originalità è indirettamente testimoniata dal moltiplicarsi contraddittorio dei riferimenti che questa ha richiamato: informale, arte cinetica, minimalismo, arte concettuale. Dimensioni espressive in effetti sfiorate, senza però manifestare un’autentica coincidenza con le loro forme ed intenzioni.

Arturo Baldan si è avvicinato all’attività  creativa da autodidatta, portando con sè un patrimonio di interessi intellettuali e culturali – anch’essi riferibili ad ambiti fra loro diversi: filosofia, psicologia, letteratura – in grado di ampliarne il livello semantico, ulteriormente arricchito dalle “interferenze” della memoria, sia personale, sia collettiva. Aspetti che, nella lettura dell’opera, l’artista invita a riconoscere tramite un gioco di rimandi e concatenazioni di senso, che possono avere il loro innesco nelle mai casuali titolazioni scelte.

La pittura gestuale, l’affrancarsi del segno dalla figurazione, il fascino della materia cromatica, intesa quale presenza depositaria di un implicito valore: pur con la disseminazione di flebili tracce di una realtà riconoscibile, le superfici degli esordi guardano alle esperienze “informali” del dopoguerra, con una percepibile predilezione per il versante dell’espressionismo astratto. Entrambi eseguiti nel 2006, Sinfonia in bianco e nero e Monocromo azzurro, tra gli episodi più maturi di questa produzione, presentano la necessità di ricondurre entro un ordine più pacato le modalità dell’action painting, e con esse la sua traduzione immediata dei sobbollimenti dell’inconscio e dell’istinto. Tuttavia, sono ancor più i precedenti Black eyes ed Il segno del destino a lasciar intuire alcuni degli sviluppi futuri del lavoro di Baldan, che si appunterà cromaticamente sulla severità dei bianchi e dei neri, sul cui confronto sono basate le due opere. Nella seconda di queste, rapide pennellate nere intercettano, attraverso il loro svolgersi apparentemente spontaneo, una misteriosa figura fasciata che sembrerebbe dipinta su carta, e invece lo è sulla faccia “interna” del vetro adagiato poi sulla superficie bianca di fondo, affinché ciò che viene ad essere mostrato sia quello che l’artefice non ha potuto vedere durante il procedimento: il lato nascosto del colore. Un’operazione in cui le porzioni di bianco, nient’altro dunque che un “vuoto” cromatico, assumono funzione strutturante, e che occulta un gioco speculativo sull’identità degli elementi costitutivi il fatto espressivo, oltre che la possibilità di un sottile spiazzamento di chi la pone in essere.

Il colore tuttavia è destinato a caratterizzare l’ingresso nella successiva fase del suo lavoro, che rilegge l’impostazione rigorosa delle superfici di Mondrian tramite la tridimensionalità di moduli dalla forma cubica o di parallelepipedo, i quali si adattano a comporre strutture dall’andamento sinuoso in The Body del 2006, oppure rigidamente ortogonale, come in Scacco matto dello stesso anno. Proprio la soluzione adottata porta l’artista a riflettere sul rapporto tra unità e tutto, sospeso tra pensiero filosofico e la natura della moderna immagine tecnologica, tema quest’ultimo esplicitato nel grande assemblaggio Pixels, frammenti di luce, datato 2009. La stessa modalità operativa conduce ad un raffreddamento della componente emozionale, a favore della sottolineatura di quella mentale ed analitica. Questo procedere lambirà le ricerche cinetico visive, grazie agli inganni percettivi prodotti dalle strutture essenziali degli Effetti ottici, i quali mostrano occasionalmente la purezza materiale delle singole parti corrotta da gocciolamenti di colore, e sfumerà poi in territori più poetici, persuadendo la luce a muovere virtualmente la superficie di Corsi e ricorsi e del dittico Piegare la luce del 2009, scandendone depressioni e rilievi. Una sorta di bradisismo sotterraneo aveva invece perturbato quella di Assembly di un anno precedente, opera che, pur nella sua stasi, rievocava il concreto vibrare dei “muri” dell’indimenticato Gianni Colombo. Ma anche l’elemento base delle operazioni estetiche orchestrate da Baldan è stato recentemente caricato di nuove implicazioni, che hanno compreso un gusto della citazione dalle venature ludiche. Stabat nuda aestas, titolo di un celebre componimento dannunziano, si presta a descrivere il “denudamento” dal pigmento dei moduli, chiamati ad edificare una nuova composizione esibendo la loro essenza di piccoli cubi lignei ricoperti di tessuto, le cui piegature suggeriscono, accostandosi, un nuovo ritmo decorativo. La presentazione paratattica di sei elementi di maggiore dimensione, questa volta listati di nero, determina invece il riferimento ai Sei personaggi in cerca d’autore, opera del più noto tra i drammaturghi italiani.

L’alterazione dell’unità di superficie, o quella eventuale dei singoli pezzi che la compongono, è però l’aspetto forse più interessante dell’ultima ricerca dell’artista. Dalle quasi impercettibili erosioni, disseminate lungo le tangenze tra i vari pezzi, di Centri d’interesse, alludente fin dal titolo al metodo pedagogico di Ovide Decroly – che, non a caso, orientava il raggiungimento delle conoscenze di carattere generale attraverso l’analisi di singoli bisogni primari – al drammatico crollo strutturale di London. In questo caso, all’iniziale suggestione dei “neri” che, con la loro peculiare opacità, caratterizzano la pittura di Sironi degli anni ’40, si è associato, nell’immaginario dell’artista, il ricordo delle distruzioni di cui la capitale inglese fu oggetto nello stesso decennio: due tracce tematiche e visive tradotte da Baldan in un esito formale di particolare eloquenza, che invita a riflettere sulla caducità delle cose umane.